Al Trieste Science+Fiction Festival ho avuto modo di vedere Meander, ultima fatica del regista Mathieu Turi
Sola e in mezzo alla strada Lisa accetta il passaggio da uno sconosciuto che si rivelerà una persona pericolosa, la ragazza si sveglierà all’interno di un labirinto, con un braccialetto luminoso e impossibile da togliere con un timer che scorre inesorabile. Come è arrivata qui? chi c’è dietro?
Siamo ovviamente in quel filone ambientato in location claustrofobiche dove la protagonista si ritrova a dover cercare di sopravvivere e uscire dal labirinto affrontando trappole di ogni tipo, senza sapere il motivo per il quale si trova in quel luogo e cosa l’aspetta il passo successivo .
Meander è quindi sulla stessa scia di altri film dello stesso genere, tutti in coda dietro a quello che fu il vero capostipite del genere, The Cube. Certo in questo caso a rendere diversa la sfumatura dietro al tutto è la metafora della protagonista alla ricerca di un modo per affrontare un lutto e ritrovare sé stessa e questo permette al materiale su cui il regista lavora di avere una certa freschezza e originalità.
Il tutto è merito soprattutto della sua protagonista assoluta Gaia Weiss, in grado di reggere la scena in – quasi – totale solitudine per tutta la pellicola grazie alla sua espressività che allarga e illumina il mondo stretto e cupo di queste trappole mortali.

La sensazione è che nel confronto con altri titoli simili a Meander manchi qualcosa, forse Turi avrebbe dovuto rendere la vita più difficile alla sua protagonista. Perchè in realtà guardandolo alla fine non ho mai avuto quella sensazione di shock o di preoccupazione per la sua vita, del tipo come riuscirà ora a salvarsi e questo sicuramente influenza il giudizio globale.
Meander ha potenziale, ma non spicca il volo e soddisfa solamente a metà.
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