C’era una volta, nel 2021, una serie coreana che nessuno si aspettava. Un po’ Battle Royale, un po’ Black Mirror, molto più disturbante di quanto Netflix ci avesse abituato. Squid Game è piombata sulle nostre homepage come un fulmine a ciel sereno e in pochi giorni ha fatto il botto: record di visualizzazioni, meme ovunque, costumi di Halloween venduti come il pane e una nuova ossessione globale per le serie coreane.

Poi, qualcosa si è incrinato. E adesso? Beh, la partita rischia di chiudersi in modo meno spettacolare di come è iniziata.

La prima stagione di Squid Game, firmata dal regista Hwang Dong-hyuk (che si è fatto le ossa per anni prima di trovare qualcuno disposto a finanziare il progetto), è stato un mix esplosivo: critica sociale affilata, tensione da manuale, estetica pop e buone intuizioni sui personaggi.

Gente indebitata fino al collo, giochi per bambini reinterpretati in chiave letale, un misterioso mega-gioco organizzato da ricchi annoiati. E il protagonista, Gi-hun, un perdente adorabile che ha fatto tifare gli spettatori per la sua sopravvivenza episodio dopo episodio.

Il pubblico ha risposto con entusiasmo: 111 milioni di spettatori nelle prime quattro settimane. Numeri da capogiro. Netflix ha brindato, Hollywood ha preso appunti e la Corea del Sud ha esportato un nuovo simbolo culturale.

Poi è arrivata la pressione. Dove c’è successo, c’è sequel, anche quando sulla carta nessuno questo seguito lo aveva mai pensato realmente. Però Squid Game 2 è infine arrivato, ci ha pure provato a replicare il miracolo, ma la magia era già un po’ svanita.

Pur mantenendo la qualità produttiva alta e ampliando il world-building, la serie ha iniziato a perdere la sua freschezza. Il messaggio sociale, così potente nella prima stagione, si è annacquato. Un po’ tutta l’impalcatura ha perso punti e anche se le idee interessanti ci sono state , tutto ha mostrato segni di “stress da narrativa”.

La critica si è divisa. Alcuni hanno apprezzato il coraggio nel cambiare registro. Altri hanno accusato la serie di essersi “americanizzata”, più interessata allo spettacolo che al contenuto. Ma tutti si sono chiesti: aveva davvero senso andare avanti?

Ed eccoci al presente. La terza (e annunciata come conclusiva) stagione è sbarcata su Netflix tra grandi aspettative e svolte narrative che hanno fatto alzare più di un sopracciglio (mio compreso)

Il finale di questa season 2.5, in particolare, ha diviso in modo brutale: c’è chi lo ha definito “poetico e coerente”, chi invece lo ha bollato come “un tradimento” dello spirito originale.

Sui social si è scatenata la guerra tra i #TeamGiHun e i delusi cronici. Reddit è diventato il campo di battaglia per analisi, teorie alternative e wishlist su cosa sarebbe dovuto accadere. E intanto, l’interesse generale sembra calare velocemente, è passato poco e già siamo nella fase in cui abbiamo meno trend, meno chiacchiericcio, meno entusiasmo.

Netflix, nel frattempo, non molla l’osso. Ha già lanciato Squid Game: The Challenge, il reality basato sulla serie . Si parla di uno spin-off ambientato nel passato del Front Man, di versione USA della serie, di universo condiviso. E innegabile la piattaforma dalla grande N sembra decisa a puntare sul marchio “Squid Game” come una delle sue IP più forti.

Ma il rischio è quello che conosciamo fin troppo bene nel mondo della cultura pop: l’inflazione narrativa. Troppa esposizione, troppe estensioni, troppo merchandising, e alla fine… ci si stanca. Come accadde con The Walking Dead, come accadde con La Casa di Carta.

Squid Game resterà nella storia della TV come uno di quei rarissimi casi in cui una serie non anglofona è riuscita a dettare legge nel panorama globale. Il suo impatto culturale è innegabile.

Ma il percorso che ha seguito – da opera d’autore a prodotto da franchising – solleva una domanda vecchia come l’industria dell’intrattenimento: è meglio chiudere alla grande o spremere fino all’ultima goccia?

Per ora, la partita è ancora aperta. Staremo a vedere

Marcello Portolan

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